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Breve esame critico del «Novus Ordo Missæ» Presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci L'opuscolo in formato pdf
Lettera di presentazione a Paolo VI Beatissimo Padre,
1) Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato - opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime - il Novu Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero. 2) La ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura - anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere - non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo Missæ e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o diverso, se pure ancora ve lo trova, potrebbe dar forza di certezza al dubbio - già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti - che verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno. Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane testimonianze. 3) Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre cosí profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, piú che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa. Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci togliere - in un momento di cosí dolorose lacerazioni e di sempre maggiori pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune - la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V dalla Santità Vostra cosí altamente lodato e dall’intero mondo cattolico cosí profondamente venerato ed amato. A. Card. Ottaviani
BREVE ESAME CRITICO DEL «NOVUS ORDO
MISSÆ»
I Nell'ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma,
fu chiesto
un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa
normativa», ideata dal Consilium ad exequendam
Constitutionem
de Sacra Liturgia.
«[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa».Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo. Nella Costituzione Apostolica si afferma che l'antico
messale,
promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a
Gregorio
Magno e ad ancor piú remota antichità (1)
fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i
sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri
præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem,
haustis
ex eo... copiosus aluerunt». E tuttavia questa riforma, che
lo
pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex
quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere
cœpit
sacræ fovendæ liturgiæ studium».
Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa l'uso di esso, con l'opportuna catechesi, potesse impedire una piú piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano. Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico. Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione
Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa
fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio
necnon
mutua connexio clarius pateant». Vedremo subito come l'Ordo
testé
promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non
resti,
nel risultato, neppure la memoria.
II Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ». «Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum(2). Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il Giovedí Santo. Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza dell'assemblea (3). Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l'omissione volontaria equivale al loro «superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione (4). Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma - aggravando il già gravissimo equivoco - che vale «eminenter» per questa assemblea la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica. Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l'affermazione che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli «instituantur et reficiantur»: assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi. Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte
accettabili
relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono,
separatamente
e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena
dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio
mensæ
Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et
liturgia
eucharistica, ecc.
III E veniamo alle finalità della Messa. 1) Finalità ultima.
- dall'Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas,2) Finalità ordinaria. È il Sacrificio propiziatorio. Anch'essa è deviata, perché anziché mettere l'accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituí il Sacramento nell'ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente (6). 3) Finalità immanente.
Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle
impalcature; sopprimendo
le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i
gesti che dovrebbero sottolineare l'unione tra sacerdote e fedeli, tra
fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente
crollerà
nel ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all'offerta
dell'Ostia
da immolare. L'unicità primordiale di questa verrà del
tutto
obliterata: la partecipazione all'immolazione della Vittima
diverrà
una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.
IV Passiamo all'essenza del Sacrificio. Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo (9). Eccone le ragioni: 1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n. 54, fine).tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l'implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale. 3) La funzione assegnata all'altare (n. 262).
4) Le formule consacratorie.
a) il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera; l'inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;In breve: la teoria proposta per l'epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell'anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est Corpus Christi») (15). L'acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la
Consacrazione:
(«Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias»)
introduce, travestita di escatologismo, l'ennesima ambiguità
sulla
Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità,
l'attesa
della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento
in cui Egli è sostanzialmente presente sull'altare: quasi che
quella,
e non questa, fosse la vera venuta.
V Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
1) il Cristo.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle
nuove, grottesche
modalità dell'offerta;
VI Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni piú gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro. Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo(24) ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante. Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio
materiale
pastorale», «testo piú pastorale che giuridico»
su cui le Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le
circostanze
e il genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova
Congregazione
per il Culto Divino sarà responsabile «dell'edizione e
della costante revisione dei libri liturgici».
«i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato all'individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».
Il nuovo rito è dato quindi in partenza come
pluralistico e sperimentale,
legato al tempo e al luogo.
VII La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di
pietà
e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente.
Il
risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito
orientale,
tanto lo spirito ne è, piú che remoto, addirittura
opposto.
VIII S. Pio V curò l'edizione del Missale romanum
affinché
(come la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di
unità
tra i cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio
Tridentino
esso doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la
fede,
insidiata allora dalla Riforma protestante.
«Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotenti Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570)(27).
Oggi, non piú all'esterno, ma all'interno stesso
della cattolicità
l'esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta(30);
l'unità della Chiesa è non piú soltanto minacciata
ma già tragicamente compromessa(31)
e gli errori contro la fede s'impongono, piú che insinuarsi,
attraverso
abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute(32).
Corpus Domini 1969
trova nulla che giustifichi tale definizione. Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n. 5) suona cosí: « ...I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il ministero del vescovo, in modo che... nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione sacerdotale in favore nostro nella Liturgia... E soprattutto con la celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il Sacrificio di Cristo». Ed ecco l'altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l'assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti». Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta definizione. Notiamo poi l'alterazione radicale, in questa definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): «Est ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium...». Fatto sparire fraudolentemente il centrum, nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il posto. (3) - Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can. 1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri». (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente (De sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB, nn. 937a fino a 956) e chiaramente sintetizzata in nove canoni: 1. La Messa è vero, visibile sacrificio - non simbolica rappresentazione - «quo cruentum illud semel in cruce peragendum repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis quotidie committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).(4) - Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma definito, crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in quanto crollerebbe il principio stesso della infallibilità del supremo solenne Magistero Gerarchico, papale o conciliare che sia. (5) - Si dovrebbe aggiungere anche l'Ascensione ove si volesse riprendere l'Unde et memores, che d'altronde non accomuna ma nettamente e finemente distingue: ...«tam beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis». (6) - Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento dei morti e della menzione della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio era applicato. (7) - Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della «transignificazione» e «transfinalizzazione». «...aut ratione signi... ita instare quasi symbolismus, qui nullo diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in hoc Sacramento... aut de transubstantiationis mysterio disserere quin de mirabili conversione totius substantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua lonquitur Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola “transignificatione” et “transfinalizatione”, ut aiunt, consistant» (A.A.S. LVII, 1965, p. 755). (8) - L'introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una inscindibile unità (p. es. «spiritualis alimonia», «cibus spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che: «servata Fidei integritate, aptus quoque modus loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide altissimarum rerum suboriantur opiniones»; cita Sant'Agostino: «Nobis tamen ad certam regulam loqui fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem» (De Civ. Dei, X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu novæ scientiæ immutare præsumat... Eodem modo ferendus non est quisquis formulis, quibus Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit» (A. A. S. LVII, 1965, p. 758). (9) - In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc., n. 48) il Vaticano II. (10) - Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: «Altare, in quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens efficitur». Non sembra molto per eliminare gli equivoci dell'altra costante denominazione. (11) - «Separare il Tabernacolo dall'altare equivale a separare due cose che in forza della loro natura debbono restare unite» (Pio XII, Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi - Roma 18-23 settembre 1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5. (12) - Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola «hostia», tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato di «vittima». Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di «cena» e di «cibo». (13) - Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l'altra, la Presenza Reale viene equiparata alla presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt'altra natura perché non ha realtà che in usu, mentre quella è, in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento. Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum suum alloquitur... Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest» (n. 33, , cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell'individuo e limitata nel tempo. L'errore non è senza la piú tragica conseguenza: l'affermazione, o l'insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all'usus e finisca insieme con esso. (14) - L'azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione in essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II - «Il Culto Eucaristico» - della Mediator Dei). (15) - Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtú dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum o piú precisamente in virtú del modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo al fine di «fare ciò che fa la Chiesa» consacreranno validamente? È lecito dubitarne. (16) - Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che queste espressioni appartengono a quello stesso contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti testi esprimono. (17) - Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v. A. Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ. Christus est quidem principalis minister. Fideles mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt ». (Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2). (18) - Notiamo una innovazione impensabile e che sarà psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36, nota 28). (19) - P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet. (20) - In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus refrigerii, lucis et pacis» veniva reso come un semplice stato («beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora, della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante? (21) - In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l'omissione, menzionata nell'accusa dei peccati al Confiteor... (22) - Alla conferenza stampa in cui fu presentato l'Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò di convertire in «Dominus tecum», «Ora, frater», etc. le salutationes nella «Missa sine populo», «...perché non vi sia nulla che non corrisponda a verità ». (23) - A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di comunicarsi di nuovo sub utraque specie durante questa. (24) - Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito» mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza verbale. (25) - Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969. (26) - Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti di vestizione del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa, delle offerte alla proscomidia; alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche (che, nell'Entrata col Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con le quali si identifica il coro nel Cherubicon); alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo; alla consacrazione celata, evidente simbolo dell'Inconoscibile a cui l'intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum e mai versus ad populum; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all'atteggiamento essenzialmente contemplativo del popolo. Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino piú di un'ora, e le costanti definizioni che vi si trovano («tremenda e inenarrabile liturgia», «tremendi, celesti, vivificanti misteri », ecc.) bastino a dir tutto. Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto di «cena» o di «banchetto» appaia chiaramente subordinato a quello di sacrificio, cosí come lo era nella Messa romana. (27) - Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di Trento manifesta la sua intenzione «ut stirpitus convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo... in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.)... quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB, 873). (28) - «Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam altari velit mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus est, cruciatus... Hæc enim cogitandi agendique ratio nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem, quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere enititur errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia, cum evigilans semper evistat “fidei depositi” custos sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit» (Mediator Dei, I, 5). (29) - «...Non ci illuda il criterio di ridurre l'edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone...» (Paolo VI, Ecclesiam suam). (30) - «Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa» (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969). (31) - «Vi sono anche tra noi quegli «schismata», quelle «scissuræ» che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia» (cfr. Paolo VI, ibid.). (32) - È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri; coloro che - mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla - ne partirono decisi a «farne esplodere» il contenuto in sede di applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai piú parve inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali (latino, gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le terribili conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora piú catastrofico, nei campi della disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede Apostolica. Torna a Documenti Torna al Dossier San Pietro |